La vita è bella anche quando sputa
La vita è bella anche quando sputa

figlio di un cane

Oggi la giornata è scivolata via senza glorie e senza sconfitte. Mi è scorsa addosso come aria inodore e a farmi compagnia ci ha pensato l’influenza, con la febbre e il raffreddore. Certe volte mi sento disorientato, strattonato da mille pensieri nel cervello. Seguo numerose iniziative ma non mi decido ad approfondirne una. Disperdo i flussi per la strada.
Nel petto avverto la vita come energia che bolle rinchiusa in una pentola il cui unico desiderio è quello di esaurirsi esplodendo.

Provo una sete che non riesco a placare e temo che non vi sia un modo per farlo. Tanti progetti, infiniti obiettivi rincorsi nel tentativo di affermare me stesso, come se non esistessi già.
È in questi momenti che penso a Mosè e al suo abbaiare nella notte nera. Lui dissolve il suo spirito nell’aria col fiato dei latrati e non chiede altro alla sua esistenza, già compiuta dal momento della nascita. Una nostalgia indefinita per cose sconosciute mi assale al suo contatto e non so ancora se per riempirmi o per svuotarmi. Allora lo fisso quasi come a chiedergli di rispondermi scorgendolo immerso nella sua serena esistenza. Guardo la sua faccia paca per motivi che non comprendo, il suo muso di gomma chiuso e i suoi occhi privi di ansie, profondamente immersi e concentrati nel presente, quel presente che spesso temo.
Quanto mi piacerebbe stargli dentro per ammirare il panorama dei suoi pensieri e poi portarmi la lezione a casa. Forse carpirei il segreto che lo rende cosi naturalmente un figlio del mondo. Avrei la possibilità unica di sentire su di me i suoi sentimenti, quelli che ha ereditato da Dio e dalla campagna.
Quando mi scontro con le difficoltà quotidiane, o quando anche gli eventi più stupidi si fanno muri di cemento su cui sbattere è al suo muso che ricorro, per ammorbidire in mano i fallimenti che stringo.

Sono certo che Mosè, davanti alla svogliatezza di un impiegato pubblico a cui ti rivolgi per chiedere un tuo diritto, reagirebbe con nobile indifferenza. Contrariamente a quanto faccio io che, proprio ieri, ho gonfiato collo e narici all’ennesimo “no si può fare” pronunciato da un panciuto tecnico del comune di Napoli.

Certi dipendenti statali vivono come se fossero da sempre e per sempre in pensione. Invece di attenderla a casa, trascorrono il loro tempo in ufficio chiacchierando o smanettando su internet, incuranti dell’attivazione frenetica che spinge gli utenti a rivolgersi a loro. Sigaretta, caffè e placida strafottenza messa sottobraccio, un’irritante lentezza nello sbrigare le commesse.

Il baffuto uomo di mezza età, seduto dietro la scrivania, non poteva di certo aspettarsi un applauso quando mi ha detto che non era possibile protocollare una mia richiesta presso il suo ufficio. La cosa mi è apparsa ancora più insopportabile perché ero sveglio dalle sei del mattino, già pronto a percorrere quindici chilometri di traffico nel mezzo della caotica città.
Napoli è un posto che non conosce pace. Abitata da anime frettolose, è in balia di una fibrillazione continua che spreca energie seccandole poi al sole. Fin dal mattino mostra la sua schizofrenia e sono certo che l’abuso del buon caffè, servito ai bar disseminati in giro, abbia le sue colpe.

Mi sono recato al Comune per chiedere di fare una ricerca in archivio necessaria per un incarico ricevuto dal Tribunale. Una semplice ricerca di faldoni con dentro delle carte: licenze, concessioni edilizie o altri documenti utili al mio lavoro. La risposta è stata che sarei dovuto ripassare il mercoledì perché “gli uffici, di venerdì, sono chiusi al pubblico” e quindi non poteva essere evasa la mia innocente istanza, fra l’altro accompagnata con tanto di ricevuta di pagamento della tassa già versata il giorno prima.

Chiaramente ho reagito come Mosè quando a lui viene minacciato il femore di mucca che sta macinando coi denti, mentre lo stringe fra le zampe cioè: ringhiando.

Molto stufato ho subito mostrato al tizio la mia contrarietà dicendogli: «ieri, per circa tre ore ho provato a chiamare al vostro ufficio proprio per conoscere gli orari ma nessuno ha risposto al telefono». Il poveretto non sapeva cosa dire e, con la bocca semi aperta, ha rigirato la colpa sul suo collega assente, «probabilmente il mio collega non poteva rispondere, mi ha risposto disinvolto. Ancora più innervosito, allora, ho incalzato specificando che il numero di telefono da me composto corrispondeva a tutti gli apparecchi di quella stanza, compreso il suo. Apriti cielo. Sentitosi braccato dalla mia prontezza, si è arroccato citando il regolamento interno, in base al quale gli uffici sono chiusi al pubblico e quindi, non potevo restare nella stanza in quel preciso momento. Con finta gentilezza e palese sgarbo mi ha, infine, invitato ad uscire.

Il mio collo si è gonfiato così tanto che ho cominciato a mostrare i denti come il molosso e mentre, infuriato scendevo le scale, cercavo di comporre il numero della più vicina stazione dei Carabinieri. Non hanno risposto neanche questi. Mi sono messo a provare e a riprovare ancora, ma nulla, il telefono della caserma squillava a vuoto. Avrei voluto raccontare ai tutori dell’ordine l’accaduto segnalandogli, in particolare, la riluttanza di questi dipendenti pubblici nel rispondere al telefono quando i cittadini chiamano per informarsi. Ma poi, visto che la stessa ritrosia ad alzare la cornetta li accomunava, non mi è rimasto che guardare per un po’ il soffitto dell’androne scorgendo, poco oltre, l’azzurro di un cielo calmo e attendere che la tempesta mi passasse come il vento fra le foglie.

Niente da fare. Le narici erano ormai infuocate. Ho avuto la tentazione di commettere un delitto per almeno un quarto d’ora e il rimettermi in auto, in mezzo al traffico, non mi ha certo aiutato ad allontanare dalla mente il pensiero omicida.

Per circa un’ora la città violenta ha posseduto la mia anima rendendomi bollente come le marmitte delle auto in fila e intollerante come i suonatori incalliti di clacson.

Una tristezza acuta mi ha trafitto, resomi conto di aver smarrito la serenità che mi ero portato dal letto di casa, e per essermi lasciato contagiare dal malumore diffuso, così corposo e ingombrante da diventare una presenza dotata di una propria fisicità.
Capita spesso che mi sveglo felice, energico e rilassato come un uccello e poi, preso da certi eventi, mi ritrovi a somigliare ad un toro o a qualcosa di simile.

Per fortuna che ho avuto altro da fare recandomi al centro direzionale dove ho incontrato poi un amico intento a visionare il seggio delle elezioni per i delegati della cassa di previdenza. In effetti dovevo andare a votare e appena sono salito al terzo piano mi sono accorto che lì tirava un’aria sfavorevole all’abbonimento del mio umore già tinto di rosso. Mi sono sentito subito in sintonia con l’ambiente litigioso dei candidati che discutevano di presunte irregolarità nella conduzione delle elezioni. Un clima di fuoco.

Stando lì a guardare quello che avveniva, a stento sono riuscito a trattenermi dall’intervenire, ma alla fine ci sono riuscito tenendo a freno la mia lingua troppe volte spontanea.

Ho votato, ho salutato velocemente il candidato a cui ho dato la preferenza e poi, via, nell’ascensore per ritornare all’aria aperta e, da questa, nell’auto. Di corsa sulla tangenziale, ho imboccato d’un fiato la direzione verso casa, anche perché la fame percuoteva lo stomaco.

Tornato al mio studio, dopo questa mezza giornata estenuante, mi sono finalmente seduto accendendomi un sigaro, dando corso a quel rituale per me sacro che sancisce l’avvenuto ritorno ad uno stato di quiete.

In certi momenti la pesantezza dei posti in cui vivo si fa sentire. Appaiono come luoghi meschini concepiti per incattivire la gente. Mi capita di sospettare che siano stati ideati soddisfacendo criteri di odio. Quel tumulo di case oscene, dove l’incuria si respira anche solo osservandone gli intonaci anneriti e cadenti, ha la capacità di impregnarsi sulla faccia predisponendomi all’ira.

Volumi anonimi e strade storpiate dall’indifferenza, fanno l’habitat ideale in cui allevare violenza, sfiducia e quanto di peggio possa infettare l’animo umano. E poi, seduto al sole sulle scale del mio cortile, come un profugo ritornato da una battaglia a cui non ho scelto di partecipare, guardo negli occhi il Molosso rimpiangendo di non essere figlio di sua madre. “Figlio di un cane”, dicono con scherno.

© andrea auletta

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