La vita è bella anche quando sputa
La vita è bella anche quando sputa

il molosso


Ecco sulla testa, come cecchini in agguato, le nuvole pronte a spararti litri di acqua addosso. Oggi tengo una svogliatezza insolita, un senso di torpore unito alla sonnolenza, eppure, ho dormito più delle “8 ore” tanto raccomandate dai medici. A fine marzo e alle porte di aprile, un tempaccio del genere non te lo aspetti proprio, sopratutto se il giorno prima il sole ha cantato tutto il tempo, dal palcoscenico del cielo, canzoni calde e luminose, facendoti illudere sull’imminente arrivo della bella stagione.Ma niente da fare, stanotte Dio ha deciso di ribaltare tutto, di rimescolare i numeri nel cesto, preferendo svegliarci con questo senso di buio invernale.

Seduto al pc, invece di mettermi a lavorare, sto facendo la conta degli sbadigli in fila sulla soglia della bocca. Uno dietro l’altro si affacciano al mondo e dopo aver salutato ugola, lingua e palato si lanciano nell’aria diventando fiato.

Cerco di sollevarmi un poco alzandomi dalla sedia e dirigendomi verso la macchinetta del caffè: di certo sarà rimasto qualche salvifico residuo, mi sono detto. Come previsto, invece, è evaporata anche l’ultima goccia.Decido allora di scendere giù per tentare una mossa di salvataggio facendo irruzione nel negozio di mio padre. Gli chiederò di preparare una delle sue potenti dosi di caffeina e, in attesa che l’acqua bolli per compiere il miracolo della nera infusione, farò sgranchire le gambe al molosso.

Detto, fatto, corro via senza pensarci più di tanto. Mi reco dal cane e fissandolo nel muso mi accorgo che è messo peggio di me. Al suo confronto sembro uno sveglio e schizzato individuo strafatto di ginseng. 

Mosè tiene gli occhi nocciola fasciati nella pelle intorno alle orbite e, nell’alzarsi al mio richiamo, mette in scena uno sforzato e pesante movimento. Mi scappa da ridere a vederlo preda della sua pigrizia e mi viene voglia di stringergli il labbrone nelle mani per mostrargli tenerezza.

Sessanta chili, due anni e mezzo e un naso nero e secco.

Si tuffa fuori dal box, comincia a scodinzolare guardandomi e in un attimo si riprende dal torpore. Io non ancora.

Tutto felice, trottando, si avvia li dove ha posto dimora alle le sue “esigenze”. Mi meraviglio come non sia nato ancora una quercia nell’aiuola che quotidianamente concima.

Intanto controllo se il caffè è pronto. “Non ancora”, dice mio padre. Sbadigliando e alzando le braccia mi accorgo che qualcosa sta cambiando in cielo: il sole comincia a degnarmi della sua presenza e il cervello lentamente si mette in moto assieme all’acqua che, nel frattempo, ha cominciato a bollire nella caffettiera.Ho una voglia matta, anche oggi, di correre in campagna col molosso. La giornata pare si metta bene. Decido per questa opzione e abbandono gli intenti lavorativi, del resto è sabato, che venga pure la sana voglia di oziare.

In un sorso secco ingoio la mia dose, imbrago la bestia col guinzaglio, lo metto in auto e via, verso la terra a scoprire le cose del mondo. Il sole adesso è più deciso e il mio umore si schiarisce come l’aria.

Giungo in campagna, al solito posto, e noto che qualcosa è cambiato. Hanno dismesso una vecchia serra levando la struttura in ferro arrugginito. Lo spazio appare ancora più dilatato e il molosso, liberato dal guinzaglio, lo percorre felice.

Al rito del sabato mattina nella terra con Mosè, non riuscirei proprio a rinunciare. E’ il momento giusto per mandare i pensieri in scaffale e il corpo in pasto alla fatica delle lunghe passeggiate. Lancio un bastone di legno e alleno pure quel pigrone a quattro zampe che si mette a correre. Visto così, in mezzo al campo, è ancora più arcaico. Il suo mantello rigato lo fa somigliare alla terra arata, ne rivela la “figlianza”. Lui è stato partorito dalla campagna, io invece, solo da mia madre.

Per tenerlo stretto a me e alla mia ansia, gli ho messo questo nome corto e veloce da pronunciare, quello del Patriarca Biblico. Eppoi gli si addice pure data la sua mole e il suo sguardo fiero. Come potrei mai chiamare un molosso?

Quando lo raccolsi dal pagliaio in cui giaceva con la madre e i fratelli, era poco più grosso della testa e lo tenni su un solo braccio. Era leggerissimo, ma sentii per la prima volta un’altro peso: quello della responsabilità di un’altra vita oltre la mia. Goffo sulle zampe, a terra, sembrava smarrito e imbambolato. Cercava di guardare lontano ma non credo che riuscisse a percepire la realtà fisica che lo circondava. Mi dava l’impressione come se una pellicola opaca gli impedissi la vista lunga e allora, questa difficoltà visiva divenne il pretesto per guardarci negli occhi e nel muso. In quel muso di gomma nero del quale sono quasi dipendete.
Insomma, la bestiola è riuscita a entrare nella mia vita, nella vita di uno che spesso scambia le attenzioni degli altri per invadenza, potendosi permettere la libertà di mettermi le zampe addosso senza grossi rischi.

Il sole ora si è fatto così presente da sembrare scostumato. Mi tolgo la felpa per il caldo e mi siedo su un cuscino di erba secca. Non ci sono suoni di città, solo cornacchie che starnazzano poco distante. I pensieri si sono dileguati assieme alle paure, se le sono portate a spasso.

Mi godo il vuoto stando solo attendo che il molosso non mi sfugga tenendolo sotto tiro con lo sguardo come farebbe una madre. Ma so che non andrebbe lontano più di dieci passi da me. Pure lui mi osserva temendo che possa io sparire e invece sono qua, felicemente solo e piacevolmente abbandonato al suolo col sole sulla faccia. Sono qua a sognare di non rientrare più, e quasi quasi, penso, mi faccio una capanna abusiva proprio in questo luogo. Abusiva come le villette a schiera che vedo da lontano. Tutte uguali con l’ambizione pretenziosa di essere chiamate “case”.

Si è fatto tardi e a quest’ora il pranzo sarà pronto. A malincuore richiamo il molosso e gli rimetto le briglie. E’ assetato con la lingua appesa e tiene pure il pelo sporco di polvere impastata ai fili d’erba. C’è di tutto sul suo dorso. Immagino già cosa accadrà alla tappezzeria della mia auto da poco lavata. Ma poco importa, a lui riesco a perdonare di tutto perché in cambio mi cede il muso di gomma lacca.

Quando il mondo con le sue ipocrisie comincia a nausearmi, vado da Mosè e siedo con lui in mezzo all’oceano. Mi accoglie sempre nel suo alito di drago e le montagne di menzogne, ritte a destra e a sinistra, non ci annegano.

© andrea auletta

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