È da un po’ di tempo che mi alzo alla cinque e trenta del mattino. Non lo faccio apposta, non metto la sveglia a quell’ora, mi capita semplicemente di aprire gli occhi e di sentire la voglia di cominciare la giornata.
Anche stamattina l’ho fatto. Mi sono alzato, preparato, ed ho mangiato una mela. Poi ho cucinato il pasto per Mosè, tacchino bollito e pasta asciutta. Sono sceso nel cortile e lui, Mosè, era arzillo come un’uccellino. Gli ho dato i gastroprotettori e sono rimasto una decina di minuti con lui e con il suo muso prima di prendere la bici e di immergermi nel mio solito paese, silenziato dal sonno degli altri.
Pedalavo e tutto mi sembrava nuovo. Basta quietare gli spasmi quotidiani diffusi, i frenetici impulsi della gente, per avvertire migliore lo stesso posto che in altre ore è la solita solfa. Il mantello dell’alba è generoso, ricopre qualsiasi punto del globo nello stesso identico modo, indorando, indifferentemente, un prato, un bosco, il deserto, o la monnezza e il cemento di una provincia cresciuta come un tumore.
I bar erano chiusi. I pochi negozi, tutti chiusi. La strada, invece, protesa, aperta, un invito ad andare lontano senza una meta, confidando soltanto sulla forza delle gambe e sulla curiosità di vedere cosa accade in quelle ore in cui, normalmente, si dorme. Ed è possibile distinguere il cinguettio di volatili posati fra i rami di alberi sparsi. Ed è possibile percepire anche una specie di sovradimensione, serena e pacifica, avvolgente e quieta, la stessa che nelle altre ore del giorno è affogata fra le nostre stupide, egotiche, inquietudini quotidiane, ma che è sempre lì, imperturbabile, oltre il vociare scomposto, oltre la sorda distrazione degli affanni. E sembra, poi, che la vita sia eterna.
Non so se domani, o nei giorni a venire, riuscirò a svegliarmi all’alba, ma spero diventi per me una consuetudine. Si campa di più, più ore, più giorni, più anni, pur lasciando fissa la data della partenza.
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