La vita è bella anche quando sputa
La vita è bella anche quando sputa

La Bestia (racconto)

Da bambino sezionavo le lucertole e altri piccoli essere viventi. Volevo vedere, dentro, cosa li muovesse. Lo facevo con curiosità. Mi sono sempre interessato alle creature, ai fenomeni fisici e biologici, difatti, finito il liceo scientifico, mi iscrissi alla facoltà di medicina diventando un chirurgo. Di ogni cosa consideravo solo la materialità e il mio motto era il seguente:

“Il mondo è un insieme di corpi; dentro i corpi c’è altra materia: siamo solo corpo e materia”.

Ho rafforzato poi questo pensiero durante il percorso universitario, il professore ci portava nell’obitorio per scoprire come fosse fatto, dentro, un essere umano: carne, cartilagine, ossa e sangue. Tutto qua.

Quando vinsi il concorso come medico chirurgo presso l’Ospedale Maggiore, mi ero appena sposato con Cristina, eravamo fidanzati da una decina di anni. Il piccolo paese dove siamo nati e cresciuti entrambi, e dove ancora abitiamo, dista circa venti minuti di auto dalla città e dall’ospedale. Escludemmo senza esitazione la possibilità di trasferirci altrove. Le colline, le campagne, la dimensione ristretta del nostro borgo abitato da poco più di mille persone, ci calzavano benissimo. E poi mio suocero donò a Cristina un appartamento ampio e comodo, è lì che abitiamo.

Se la tranquillità, l’aria e la spaziosità della mia terra erano motivi di conforto, ciò che proprio non sopportavo era la mentalità superstiziosa dei suoi abitanti. Certi posti isolati favoriscono un’insana fantasia, l’ho sempre pensato. Invece la fantasia buona, quella sana, è quella tipica di un artista, per esempio di un pittore che con la chimica dei colori crea la sua visione del mondo sulla tela, stimolando interessanti riflessioni. Le credenze diffuse fra i miei paesani mi sembravano solo deliri da associare al cavernicolo che ancora permane in alcuni individui, spaventati da tutto ciò che non conoscono.

Dicevano, infatti, che una creatura strana si aggirasse la notte per le strade deserte del paese, e che poi giungesse fino alla fontana nella piccola piazza. Secondo chi credeva in questa storia, ciò accadeva soprattutto in estate. Qualcuno addirittura affermava di averla intravista mentre si abbeverava o si immergeva nell’acqua raccolta sotto la vasca della fontana.

«Sciocchi!» dicevo. E sciocchi erano mia madre, mio padre, i miei suoceri. Ma ciò che maggiormente mi irritava era la facilità con cui anche Cristina, la mia giovane moglie, credesse come gli altri all’esistenza di quell’essere irrazionale, nonostante avesse studiato lettere e filosofia, nonostante avesse un alto profilo culturale e insegnasse letteratura presso il liceo della stessa città dove operavo come medico chirurgo.

Spesso, cenando con i miei suoceri, si parlava del più e del meno, come fanno tutti. E poi, non so come, le discussioni si chiudevano parlando di quella leggenda. Finiva sempre che mi mettessi a ridere. Prendevo in giro la loro credulità. A dire il vero, ad un certo punto della discussione, mi alteravo anche. Come potevo, IO, giovane medico in carriera, circondato da tanta gente colta e razionale, sopportare l’idea di appartenere ad una famiglia preda di certi retaggi culturali tipici di una civiltà rurale e oscurantista?

«Se IO non fossi così come IO sono, forte e centrato, mi farei psicologicamente influenzare dalla vostra stupida ignoranza. Ma, per fortuna, IO, ho sempre sezionato corpi, cominciando da bambino con le lucertole». Ecco, questo è quello che dicevo a loro. 

La situazione mi appariva ancora più folle perché il papà di Cristina, un contadino imbevuto di vino e di quella ingenua ignoranza, affermava che la cosiddetta Bestia – così la chiamava lui – in realtà non fosse altro che un essere umano. Per me era tutto assurdo e delirante.

Una volta, mentre eravamo a cena insieme, disse proprio così:

«È un uomo che si trasforma e prende le sembianze di una specie di scimmia, e poi diventa feroce come un cane arrabbiato».

«Oddio, che paura!» ribatteva mia suocera.

«Ah, sì, è così?» chiedeva Cristina mostrando la sua stoltezza.

«Ma veramente credete a queste stupidaggini?» dicevo invece io, ogni volta, divertito da quei discorsi buoni solo ad ammazzare il tempo.

«Sicuramente la storia della Bestia» pensavo poi fra me e me inorgogliendomi della mia capacità di analizzare ogni cosa «sarà comparsa un centinaio di anni fa, originata da un evento umano, che ne so, da un ubriaco sorpreso una notte a compiere gesti da alienato per la strada. Oppure, chissà, semplicemente sarà stata inventata da qualcuno per puro divertimento, annoiato di vivere in un borgo tanto isolato».

Il fatto è che le “menti semplici” hanno bisogno di nutrirsi di mistero, di sentire sulla pelle le paure, e certe storie strane nascono dall’esigenza di vincere la paura primaria dell’uomo: quella della morte.

E comunque, mio suocero – e tutti gli altri creduloni, vecchi e meno vecchi, laureati o analfabeti – si sorprendeva del mio totale scetticismo, quasi fossi io il pazzo della situazione. E per mettere sul piatto elementi, a suo dire, inconfutabili mi diceva:

«È tutto vero, l’hanno intravista anche i netturbini quando un giorno sono usciti di primo mattino, pochi mese fa».

«Intravista, non vista!» tenevo a specificare, ben sapendo che poi la suggestione, in certe situazioni, fa brutti scherzi, innescando quell’ingenua fantasia del cavernicolo. Poi, tirando il petto in su, infilandomi lo stuzzicadenti in bocca, mi facevo la solita grassa risata. E allora lui incalzava, si dimenava, insisteva con maggiore tenacia, senza mai fornire però elementi scientifici e certi a sostegno di quanto affermasse:

«Ma che dici!? Molti al paese l’hanno pure sentita gridare. Se ne va in giro per la strada a notte fonda e si lamenta e urla con un verso spaventoso».

«E perché non si affacciano per guardarla?».

«Perché hanno paura!».

«Ecco, appunto: è la paura a farli impressionare».

Ogni particolare che cercava di fornirmi per farmi capitolare dalle mie posizioni, essendo privo di qualsiasi evidenza scientifica, provocava in me solo l’effetto contrario: mi confermava quanto non aveva alcun bisogno di essere confermato circa il loro insensato pensiero, nutrito da credenze illogiche e infantili, e diventavo sempre più sfacciatamente irridente, sarcastico oltre ogni misura.

«Smettetela! Io non ho mai visto ciò che raccontate». Era sempre questa la frase che, infine, dicevo per chiudere l’argomento che alla lunga diventava noioso.

Già, perché proprio in quel periodo estivo, ai primi di luglio, mi capitava anche di dover raggiungere il reparto di notte per motivi urgenti, quando ero reperibile. Uscivo di casa a piedi, attraversavo la piazza dove c’è la fontana, prendevo l’auto parcheggiata dall’altro lato della piazza e mi recavo in ospedale, in città. Non ho mai visto nulla di strano oltre al solito branco di cani randagi stesi a terra a dormire quietamente.

Ma loro, invece, credevano a quella bizzarria. E si sbilanciavano azzardando improbabili identificazioni, tentando di dare un volto al presunto mostro, ipotizzando chi mai potesse essere il compaesano o la compaesana che di giorno era una persona come tutti e di notte, soprattutto con il caldo afoso, diventava la bestia inferocita.

«Secondo me è il panettiere. Quello è proprio un tipo strano, il suo parlare poco non mi convince» diceva uno.

«Potrebbe anche essere la farmacista, ha due occhi malevoli, e poi pure una donna può trasformarsi in una bestia» diceva un altro rivendicando una impropria par condicio.

Avrei pensato che quei ridicoli racconti non fossero altro che riproposizioni suggestive di certe vecchie storie sui Licantropi se non fosse che, mio suocero, proprio lui, il più invasato di tutti, affermasse con convinzione:

«No, ma che licantropo, i licantropi sono leggende inventate».

«Ma come» replicavo più disorientato che altro «non credete ai Licantropi e credete all’esistenza di questo strano essere?». E scoppiavo a ridere, spudoratamente, sempre più consapevole della mia superiorità intellettiva e dell’ignoranza annidata in chi non vuole o non riesce a vedere la realtà materica di tutte le cose del mondo, anche di quelle che respirano, ignorando il loro banale funzionamento chimico, biologico e meccanico, certamente da scoprire e da indagare e, in un certo senso e per questo, simile a un mistero da svelare, ma con la mente della scienza, come facevo io squartando i miei pazienti.

Accadde una volta che tornavo dall’ospedale nel cuore della notte. Dovetti uscire urgentemente per operare una donna rimasta gravemente ferita in un incidente stradale.

Arrivo nei pressi della piccola piazza, parcheggio l’auto al solito posto e mi avvio verso casa a passo lento. Notai che i cani randagi, insolitamente svegli, abbaiavano e ringhiavano per qualcosa. I latrati si mischiavano al fruscio dell’acqua zampillante dalla fontana posta alla mia destra. Stavano radunati tutti nei pressi dell’ultimo lampione, quello all’angolo della strada che porta a casa mia – sarei dovuto passare per forza di là – e si tenevano a una distanza di tre o quattro metri dal muro. Abbaiavano, ringhiavano, con ferocia. I cani, si sa, quando si trasformano in questo modo ti sorprendono, non diresti mai che poco prima, magari, quello stesso cane si è messo a scodinzolare o a giocare con una palla. Era evidente che avessero paura di qualcosa.  

Incuriosito dalla scena, tranquillamente, senza temere che potessero aggredirmi perché li conoscevo uno ad uno, faccio per avvicinarmi al branco di randagi quando, ad un certo punto, intravedo una sagoma scura che si scosta dal muro in ombra, passa veloce sotto la luce del lampione e sfila via, perdendosi nella campagna intorno al paese. Mi sembrò come la polvere smossa da una folata di vento. I cani l’inseguirono per un piccolo tratto, poi si fermarono. E tornarono indietro rilassati, docili e calmi come sempre.

Raggiunsi lo stesso punto dove i cani si arrestarono buttando un’occhiata nella campagna annerita dalla notte fonda ma non vidi niente. Infine, sfinito dalla stanchezza e desideroso di rimettermi a dormire, me ne torno a letto.

Trascorsi un paio di giorni ripensando e analizzando l’accaduto. A casa non dissi nulla perché non c’era proprio nulla da dire. I cani sono pur sempre degli organismi elementari, per certi versi anche stupidi e insensati, spesso abbaiano senza un motivo e quella sera, probabilmente, dovettero fissarsi con il muro, forse erano già nervosi per i cavoli loro o chissà cos’altro. Oppure, semplicemente, si annoiavano. Anche i cani possono annoiarsi come noi umani, diversi studi sul loro comportamento lo dimostrano. E poi la polvere, beh, la polvere, non sarà mica insolito che si trovi sui muri e che venga smossa da una folata di vento e assuma forme strane, e perché no, pure la forma di una sagoma che possa ricordare quella di un umanoide. Fra l’altro bisogna considerare che noi esseri umani, spesso, crediamo di vedere cose che non ci sono, la scienza questo fenomeno lo chiama Pareidolia. Tendiamo a ricondurre a immagini note forme del tutto casuali. E non è certo strano, infine, la presenza del vento nella stagione estiva e calda, ai primi di agosto, soprattutto nei luoghi collinari. Dunque, davvero non c’era molto da raccontare a qualcuno, tantomeno elementi per cui valesse la pena riflettere ancora.

Le ferie, quell’anno, le avrei prese a settembre, così mi accordai con gli altri colleghi del reparto. Di conseguenza, per tutto il mese di agosto, lavorai normalmente facendo i soliti turni e dando la mia disponibilità a essere reperibile nelle altre ore. Non ripensai più all’accaduto, non avrebbe avuto alcun senso farlo e poi i troppi impegni di lavoro ci distraggono tutti. Vi sono cose più pressanti a cui dedicare le energie, anche quelle cerebrali. Ma una notte in cui il cuore del paese si era svuotato per le partenze dei vacanzieri, esco nuovamente di casa per l’ennesima chiamata urgente.

Erano circa le tre. Prima di sbucare sulla piazza, a una decina di metri da me, nei pressi dello stesso lampione all’angolo, vidi il solito branco di cani randagi. Abbaiavano, ringhiavano. Erano inferociti. Come la volta precedente rivolgevano la loro attenzione alla parte dello stesso muro lasciata in ombra dal cono di luce del lampione. La fontana, ora alla mia sinistra, riversava nell’aria e nella notte i suoi fruscianti zampilli d’acqua.

Mi avvicino, stavolta, determinato: volevo capire cosa stesse accadendo.

Nell’ombra, oltre il cono di luce, vedo una figura umana scura, come spiaccicata contro il muro, sembrava non avere un corpo tridimensionale, ma non ne ero sicuro, la visibilità era davvero minima in quel punto, poteva essere qualsiasi cosa. Quindi, con un gesto della mano scaccio i cani in modo da avere la tranquillità giusta per guardare meglio. Quando mi volto di nuovo verso il muro, accigliando lo sguardo, noto due occhi sbarrati e luminosi che mi fissano. In un primo momento pensai che fosse qualcuno bisognoso di aiuto. Allora gli chiedo:

«Posso fare qualcosa per te?».

Mi risponde con una voce profonda, greve e rauca:

«Non mi serve nulla!».

«Sicuro?» insisto ancora.

A quel punto mi guarda senza dire altro. Poi si sporge in avanti entrando nel cono di luce del lampione, mostrandosi totalmente. I cani – che nel frattempo si erano calmati e allontanati poco più in là – nel vedere quel movimento riprendono ad abbaiare più inferociti di prima, facendo degli scatti nervosi in avanti come se volessero azzannarlo ma senza osare avvicinarsi a lui più di tanto.

La sua faccia smagrita era coperta da una barba nera non troppo lunga, la bocca era una fessura. I capelli sembravano unti di sudore e dalle commessure labiali colavano gocce di saliva. Mi spaventai. Pensai che fosse un malato di mente e che potesse farmi del male. Lo guardavo stupito, dritto negli occhi e lui, immobile, mi fissava con lo sguardo spalancato, tacendo, fino a quando, impostando la voce rauca, disse:

«È notte fonda, vai dove devi andare!».

«Sto andando a prendere la macchina».

«Allora, vai!» mi comanda come se volesse mettermi in guardia per qualcosa che sarebbe accaduta da lì a poco, o almeno così mi parve.

«Ma tu chi sei? Non sei del paese, non ti ho mai visto!» gli faccio con la mia arroganza di allora.

Ero giovane, ero un ragazzo perbene. Ero colto, ero intelligente. Pensavo di essere imbattibile, forte dei miei successi e consapevole della mia mente capace di indagare la materia e i corpi. Però in quel caso, devo ammetterlo, vacillai.

Si abbassa e si siede sul marciapiede con un movimento leggero, senza produrre alcun rumore, quasi come se fosse costituito di una sostanza eterea. Ma aveva una pelle, però. E una faccia scura e sporca, chiazzata da macchie ancora più scure del fondo. Anche sul collo presentava le stesse macchie scure, così come erano presenti sulle mani e sulle braccia rinsecchite che spuntavano da una camicia scura a maniche corte, strappata e sbottonata fino al petto, quasi come se avesse voluto liberarsi dalla costrizione dei vestiti. E i suoi occhi, quegli occhi, li vidi ancora meglio: erano verdi. Di un verde che sembrava fluorescente sotto la luce del lampione. E poi, sbarrati. Erano sbarrati e fissi. Non si chiudevano nel tipico movimento che facciamo tutti per idratarli con le lacrime, no, affatto.

«È pazzo!» pensai fra me e me «questo è un pazzo!».

«Non sono pazzo!» mi disse lui.

Oddio, restai impietrito. Mi chiesi se invece di averla solo pensata quella frase, magari, agitato com’ero, non l’avessi invece pronunciata senza badarci.

«No, non l’hai detta!» mi fece.

A quel punto sbiancai. Pensai a mio suocero, pensai a mia moglie. Pensai alla Bestia.

«È così che mi chiamate, lo so», fece ancora lui.

Io rimasi immobile in piedi lì dov’ero, senza riuscire a parlare. Certo, la paura, ma anche la sorpresa. E poi sentivo una forza strana che mi tratteneva lì, vicino a lui, e non so dire cosa fosse, non di certo la mia innata curiosità.

«Siediti!» mi fece.

Mi sedetti sullo stesso marciapiede ma a una distanza di tre o quattro metri da quell’essere.

«Le cose esistono!» disse.

Si volta verso i cani che ora avevano smesso di abbaiare ma continuavano a ringhiare inferociti mostrando i canini, e indicandomeli con la mano mi chiede:

«Cosa vedi?»

«Vedo i cani» gli risposi con una voce faticosamente emersa dal mio profondo intontimento.

«Sei sicuro?».

«Eh, sì!». E Lo guardai come a dirgli: «Perché cosa sono, non sono cani?». Ma tanto lui aveva già capito cosa stessi pensando leggendo direttamente le parole dal mio cervello.

«Quelli sono Lupi, non sono cani. Adesso, in questo momento, inferociti, non lo sono più! E io sono la tua Scimmia, il tuo “Lupo”. Mi capisci?».

«Ma tu leggi il mio pensiero?».

«No, non leggo nulla: io ti sento! Perché sono la tua Scimmia».

Poi voltandosi intorno e scrutando le finestre chiuse delle case affacciate sulla piazza, mi disse:

«Là dentro ci sono tante altre Scimmie, tanti altri “Lupi”. Tu sei una Scimmia che lavora spesso di notte e non dorme quando lavora di notte. E chi non dorme, la notte, può incontrarmi. Può incontrarsi. Mi capisci?». 

Frastornato, disorientato, pensai di sognare.

«Ma cos’è che sta dicendo, cosa sta accadendo?» mi chiedevo.

E la Bestia mi guardava e io la guardavo, e stranamente non ne avevo più paura e non sembrava più essere una minaccia per il mio corpo, per la mia persona. Quasi mi sentivo calmo.

«Vai, adesso. Vai, devi andare!».

Mi alzo guardandola negli occhi e lei guardava i miei. Con la bocca spalancata ingoiavo l’aria in assenza di salivazione, mentre la Bestia, grondante di saliva ai lati della sua bocca, pareva produrne sempre di più, come se fosse affamata di qualcosa.

«Vai ti ho detto. Devi andare!». Urlò.

Faccio per incamminarmi verso l’auto dandogli le spalle. Quando sono a una decina di metri dalla Bestia, sento all’improvviso un urlo acuto. Spaventoso. Un urlo indefinibile. E subito dopo il guaito lancinante di un cane. Mi giro per un istante a guardare. La Bestia teneva un cane nella bocca, per il collo. Mordeva. Stringeva. Il cane guaiva. Si scuoteva come un pesce arpionato dall’amo. Quella bocca sembrava essersi ingigantita, non era più la fessura con cui mi aveva parlato poco prima. Ed anche il suo aspetto era mutato: si presentava, ora, come una sagoma umana nera, da cui spiccavano ancora di più i suoi occhi verdi e fluorescenti.

Si voltò per guardarmi e restò fermo in quella posizione con il cane stretto nelle fauci che si dimenava. Restai impietrito. Intanto sentivo il fruscio dell’acqua zampillante della fontana e, nella dimensione sonora che lo ospita, il silenzio della notte.

Ad un certo punto, la Bestia, molla il cane dal suo morso facendolo sbattere in terra. La sua bocca, ritornata a essere una fessura, come fosse elastica, era impregnata di sangue mischiato alla salivazione. Mi fissa ancora per un poco con un volto privo di espressioni. E poi mi dice:

«In ogni cane c’è un lupo e in te ci sono io. Io sono quello che tu rifiuti di essere, sono la tua “Scimmia”, sono quello che tutti temono di essere. Io sono te».

 Pronunciate quelle parole, per me incomprensibili, si gira verso la campagna scura e grida forte il suo verso acuto. Atroce. Spaventoso. Poi mi guarda di nuovo, per l’ultima volta, e sfila via. Veloce, verso la campagna, sfarinando il suo corpo come polvere resa viva da una folata di vento.

A mio suocero e a mia suocera non ho mai detto nulla di quella notte. E neanche ai miei genitori ho detto nulla. E nemmeno a Cristina ho mai raccontato del mio incontro con la Bestia. Nessuno sa ciò che mi accadde quella volta.

Allo stesso modo non dico mai a nessuno che spesso, nelle notti d’estate quando l’aria è afosa, mi capita di alzarmi per andare sotto il lampione. Appoggio le spalle contro la zona in ombra del muro, fuori dal cono di luce. Gli zampilli d’acqua fruscianti della fontana invadono il silenzio. E allora, i cani, insolitamente svegli, davanti a me, tenendosi a una certa distanza, abbaiano. Ringhiano, sono inferociti. Pare vogliano sbranarmi.

(© Andrea Auletta)

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