La vita è bella anche quando sputa
La vita è bella anche quando sputa

Non basta più la semilibertà

Lo so, bisogna avere pazienza. Lo so, ci sono persone disabili e altre affette da malattie pesanti, e in tutti questi casi la pazienza, la loro pazienza, è infinita. 

Ma sono proprio stanco e bisogna pur dirlo e dirselo: questo modo di vivere abbrutisce, fiacca, non è normale, non può più essere tollerato a lungo.

Qualcuno penserà: «Ringrazia Iddio che stai bene e in salute invece di lamentarti». Ma non mi sto lamentando, mi sto proprio sfogando. Non si può continuare a sopportare un’esistenza il cui l’unico scopo sembra essere quello di mantenere il corpo in vita, lontano dall’attacco del virus e distanziato dagli altri corpi. La mente, così, potrebbe anche esplodere. La mente chiede di essere liberata totalmente, vuole assolvere le sue funzioni sociali. 

È passato quasi un anno dal primo look down, quando tutti credevamo che la chiusura sarebbe durata una quindicina di giorni, giusto il tempo per disperdere l’ospite sgradito, il virus. Allora mi pareva sensato fare un “sacrificio” per qualche mese, eravamo spaventati e quando si ha paura si è sempre disposti ad accettare condizioni anche disumane pur di sedare quella paura, mettendosi al riparo dai pericoli.

Però, adesso, basta. Cominciano a bussare forte in petto le esigenze psicologiche, quelle emotive, quelle relazionali. I desideri, i progetti lasciati a sbiadire in questo tempo in sospensione, come se coltivarli non avesse più alcun senso. Insomma, non so voi, ma io ho voglia di riprenderli e di ritornare a vivere pienamente, come prima, anzi, meglio di prima, riattaccandomi al filo delle mie passioni necessariamente condivise con gli altri dentro una società che a sua volta vive, crea e progetta. Non penso di essere il solo ad avvertire questa mancanza e non mi pare nemmeno di essere un pazzo nel desiderare di colmarla. 

Stamattina una ragazza sconosciuta mi ha chiesto di darle una mano. Aveva l’auto parcheggiata sulla strada fuori al mio studio, incastrata fra due auto e non riusciva a tirarla fuori. Mi sono offerto di aiutarla. Avvicinandosi  mi ha messo in mano il suo mazzo di chiavi. Si è accesa la prima lampadina rossa. Ho aperto la portiera, inserito quelle chiavi nel quadro per avviare il motore dell’auto. Ho appoggiato una mano sullo sterzo e l’altra sul cambio. Seconda lampadina rossa. Intanto lei, da fuori, mi teneva il cellulare fra le dita, l’ho osservata. Terza lampadina rossa. Dopo aver fatto la giusta manovra, liberando l’auto dalla stretta, sono sceso. Mi ha ringraziato e nel farlo mi è parsa troppo vicina – ho notato la mascherina leggermente abbassata sul naso. Quarta lampadina rossa. Dalle viscere un moto frenetico mi invitava a salutarla in fretta per scappare al chiuso del mio studio. In bagno ho lavato le mani, le chiavi, il cellulare e l’anima, mentre mi dicevo pentito: «ma chi cazzo me lo ha fatto fare di aiutarla?». E ho visto quanto sia la paura a rendere egoista un essere umano. Già. Noi pensiamo agli egoisti come a persone cattive e invece no, sono solo spaventate, troppo spaventate, tanto spaventate. E questo nuovo e inatteso “mondo” ci rende spaventati più di prima. 

Quando passerà? La domanda è lecita o no? E quando me la fanno gli amici rispondo con un tono sicuro: «Passerà in primavera. Caleranno i contagi, si diffonderà il vaccino e tutto andrà a scemare» Però non ci credo più. «Non lo so quando passerà, non so nulla, nessuno lo sa» questa sarebbe la risposta più adeguata. Tanto è vero che adesso il coso, il virus, sta mutando, ha capito come fregarci per continuare ad abitarci il corpo. È tenace. È ostinato. Sta diventato inglese, brasiliano, sud africano, scozzese, e mi pare anche napoletano da quanto dicono i giornali. Non è mica scemo, lo abbiamo forse sottovalutato? E cosa dovemmo fare alla luce di queste mutazioni insidiose e maligne? Non lo so, non so nulla. Ripeto: nessuno lo sa. 

Una cosa è certa: quando tutto questo finirà sarà difficile riprendere la solita fiducia nella gente e nella loro vicinanza, almeno per me. A volte ricordo e immagino i pranzi e le cene fatte con gli amici nell’era pre-covid e mi appaiono come situazioni quasi scandalose, alla stregua di reati commessi inconsapevolmente, come se oggi avessimo in qualche modo affinato il concetto di “peccato” (reato, peccato, sono simili). Madonna che brutta frase ho appena scritto, lo so.

Però è così: ci si abitua alla solitudine, diventa il normale vivere anche se di normale, ricordiamocelo sempre, non ha proprio nulla, e di conseguenza la vista di un assembramento, o il solo pensare ad esso, ci appare, appunto, scandaloso. Ci sarà tanto lavoro per gli psicologi (io uno lo prenoto fin da ora) dovranno curare le ferite e i disagi dovuti a questo lungo, troppo lungo, periodo vissuto disponendo di una semilibertà che non basta più. 

(© Andrea Auletta) 


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