E poi, all’improvviso, si diventa diffidenti. Va bene, superi l’infezione, ti brillano gli occhi nel saperti negativo dopo giorni e giorni di reclusione. Ti dici: «Che bello, adesso posso uscire». E invece, non appena sei in un luogo dove c’è altra gente che, giustamente, parla, ride, fiata, ti parte da dentro un timore sconosciuto, e non sai più quali siano le traiettorie da percorrere o da evitare.
Quando è capitato a me di uscire per la prima volta dopo la quarantena (circa una ventina di giorni fa) un’ora dopo la notizia della mia guarigione, è accaduto di pomeriggio. Avevo finito i sigari. Quindi ho colto l’occasione per fare due passi, ne avevo tanta voglia. Un amico mi ha chiamato proprio mentre stavo indossando il giubbotto per scendere da casa.
Parlavo con lui e camminavo sulle scale. Ho attraversato il cortile, ho aperto il cancello con l’unica mano libera inserendo la chiave nella serratura, e ridacchiavo al telefono. Ho sbattuto l’anta del cancello ritrovandomi sulla strada senza gente e ancora stavo al telefono. Gli raccontavo con allegria l’esperienza appena conclusa – per grazia di non-so-chi ma qualcuno da ringrazia ci sarà – “negativamente”. Mi sentivo davvero sgravato da un peso e felice per l’avvenuta libertà.
Ad un certo punto, però, allontanandomi sempre di più da casa, ho avuto qualche smottamento. E prima ancora di giungere dal tabaccaio già mi chiedevo quante persone potessero esserci lì dentro. Alla vista della porta dell’angusta bottega, con ancora un banco di legno degli anni settanta, lo smarrimento è diventato poi timore vero e proprio. Per farmi coraggio ho allungato il brodo della chiacchierata, parlando di cavolate e di cose senza senso pur di trattenere l’amico al cellulare, che, senza saperlo, mi ha fatto compagnia mentre prendevo i sigari, per poi scappare via velocemente, come ad evitare di imbrattarmi con lo sciame d’aria, il miscuglio di fiati e sudori trasportati dal vento. A parte l’immagine un po’ onirica (e persecutoria) ho sentito una sensazione di “sporco” sulla faccia, quasi fosse l’ultima “leccata” del virus.
Insomma voglio dire questo: c’è un covid e un post-covid. C’è prima un disagio fisico e poi uno relazionale che assomiglia molto al “Disturbo Post Traumatico da Stress“, e che non mi aspettavo affatto. O forse si tratta proprio di quel tipo di nevrosi con manifestazioni più leggere rispetto a chi supera, per dire, una guerra o un grave incidente mortale. Però il principio con cui si innesca il timore, paralizzante alla vista di altri essere umani, è lo stesso.
Quando sono rientrato con tre scatole di sigari fra le mani, spruzzate ben ben con il liquido igienizzante, l’amico di cui al telefono, prima di salutarmi, mi ha detto: «Dai, ci prendiamo un caffè in settimana, che dici?».
La Campania era ancora “Zona Gialla“, nei bar si poteva entrare, ma la mia risposta è stata negativa: «Non dirmi nulla, per un po’ di tempo non voglio avere a che fare con i luoghi aperti al pubblico. Se vuoi ci vediamo in strada o al mio studio e il caffè lo porto io da casa nel termos».
No, non è più come prima, almeno in questi primi “Giorni Dopo”. Quel coso, il virus, è maligno: entra nei corpi senza trascurare le menti. Ha contratto lo spazio esistenziale. E mi riferisco a quello fisico percorso o vissuto da fermi, e che da sempre accoglie le nostre attività, le nostre azioni. La nostra vita. E a farne le spese, al di la di freddi e cinici calcoli economici, è soprattutto la disinvoltura.