La vita è bella anche quando sputa
La vita è bella anche quando sputa

“Non arrenderti. Rischieresti di farlo un’ora prima del miracolo” – la mia esperienza con il covid.

Ciò che mi ha colpito è l’assenza di una telefonata, la tipica telefonata, da parte di alcuni amici con cui ho e ho avuto tanto da condividere nel periodo di libertà. I più spericolati hanno inviato un messaggio vocale su WhatsApp. Tutti hanno paura di contattare la sofferenza. Ma non è colpa loro (non è colpa vostra) ciò dice solo tanto su quest’Era asettica fatta di distacco dall’altro, non solo fisco, ma soprattutto emotivo a cui la mancanza di gusto e di olfatto dovuta al virus fa da eco. È un’Era davvero cinica, insipida, con una pessima salute umana. La vera malattia è l’assenza di empatia, lo sfiatamento vitale, l’incapacità di osare condividere un dolore o una gioia con gli altri. La vera malattia è la negazione della nostra natura sociale, il trionfo della paura.

E intanto, per quanto mi riguarda, parlando di salute, come si dice in gergo, mi sono “negativizzato”. Sto bene, per fortuna. Già, perché quel coso era entrato anche dentro di me. Non so come abbia fatto però è accaduto. Forse durante una delle mie riunioni di lavoro svolte presso uffici pubblici, oppure in uno dei miei accessi come Consulente Tecnico del Tribunale. E dire che ho sempre messo la mascherina, la mia struttura ipocondriaca, iper-difensiva, non mi avrebbe mai permesso alcuna leggerezza. Probabilmente avrò tollerato che altri non la indossassero in mia presenza per non sembrare antipatico, è un’ipotesi.

E insomma, è cominciato con un po’ di febbre. Un martedì qualsiasi, dopo pranzo, ho avvertito i classici brividi dell’influenza. Misuro la temperatura e il termometro segna 37,6. Se fossimo stati nell’Era precedente non avrei avuto paura di quei decimi, anzi, mi sarei felicemente deposto a letto. L’influenza stagionale tante volte ci soccorre, fornisce sempre un opportuno alibi per stoppare il frenetico tram tram quotidiano: «Mica è perché sono pigro, ho la febbre!» mi sarei detto mettendo a tacere insensati sensi di colpa.

E invece, no. Ho cominciato a temere e a pensare male. Prima ancora di conoscere l’esito del tampone mi sono preoccupato di riparare i miei genitori dalla mia presenza, dal mio fiato, isolandomi da loro e da tutti, dal mondo, chiudendomi nella mia stanza.

Quando l’infermiere è arrivato qualche giorno dopo per somministrarmi il test era giovedì sera. Mi sentivo già meglio, la febbre si era calmata ma ho cominciato ad avvertire un leggero affievolimento del gusto e dell’olfatto. Ero comunque spossato e preso dall’ansia. L’infermiere indossava i guanti, la mascherina, la visiera di plastica trasparente sulla faccia – non ho nemmeno visto quale fosse il suo volto – e la tuta bianca usa e getta. Ho cercato di accoglierlo con simpatia, dissimulando la preoccupazione, volevo rendere il tutto il meno drammatico possibile, ma dentro ero un fuoco pieno di ansia.

Quando mi ha infilato il tampone in gola mi è parso di essere una specie di bestia prelevata dal bestiame. Lo stimolo del vomito è stato insopportabile ma sono rimasto immobile per farlo scendere fino in fondo alla gola, per essere sicuro che venisse praticato bene e per avere, poi, un risultato certo, inequivocabile. Quando poi il tampone me lo ha infilato nel naso, così profondamente, mi sembrava che mi stesse attraversando il cervello. Però non voglio impressionarvi. Certo è una pratica invasiva, non c’è dubbio, ma non è detto che tutti la vivano allo stesso modo. Mi ha creato più disagio l’attesa del risultato, ad essere sincero.

La stessa sera, dopo aver consumato la cena nella mia camera, appoggiando piatti e posate di plastica su una sedia che sta ancora lì – e che ora guardo come se appartenesse già ad un passato remoto – non ero sereno a letto. Avevo paura. Mi sono addormentato con i deliri nella testa, ogni tanto saltavo nel sonno, mi svegliavo e poi ritornavo a dormire rifiutandomi di restare sveglio. D’altra parte non potevo essere certo che si trattasse del “coso”, poteva essere anche una semplice influenza stagionale, questa speranza mi ha rincuorato. Al di là dei presagi, comunque, sono sempre i numeri a decretare o meno lo stato delle cose, è la scienza a stabilire la verità e, nel mio caso, l’esito del test.

Per primi sono giunti i risultati dei test dei miei genitori: negativi. Ho esultato. Ero felicissimo per loro. Scommetto che loro stessi hanno pensato “non c’è due senza tre”, avendo un’intima fiducia che anche nel mio caso ci sarebbe stato identico responso. Io, no. Sono un tipo sospettoso. Non do mai credito ai processi poco empirici. Certo, speravo, ma ho voluto attendere il referto che è arrivato la sera del giorno dopo.

In quei primi giorni, ma anche dopo, ho sentito al telefono diversi amici e amiche, ci siamo inviati anche dei messaggi. L’argomento principale non è stato il Covid ma la paura. La paura che quella parola si porta appresso. Devo dire che la loro presenza continua, la loro premura, anche se fisicamente distanti, mi ha reso l’attesa meno fibrillante.

«Come stai, hai avuto l’esito del tampone?» mi chiedevano. E io rispondevo: «Sto benissimo, ma ancora niente». Fino a quando, poi, quella sera, verso le 20:00, poco prima di cenare, controllando la mia email, ho ricevuto il referto. Stavo al telefono con una cara amica con cui ci sentiamo quasi ogni sera, anche lei sta vivendo la stessa situazione ma ne uscirà molto presto.

Aprendo la posta, ad un certo punto le ho detto: «Oh, mi è arrivato il risultato, adesso lo guardo…».

La dicitura di un referto medico è sempre sterile, non include alcuna emozione. Deve essere, ovviamente, scientifica, tecnica, quasi a leggerlo non senti il pugno nella pancia. Potrei dire, per fare un paragone, che è come ritrovarsi davanti alla realtà, e la realtà non è mai contaminata dalle opinioni o delle sensazioni, non ha filtri, è quella che è. E insomma c’era scritto questo:

“Risultati: L’indagine molecolare eseguita sull’RNA estratto dal materiale biologico pervenuto ha dimostrato ESITO POSITIVO per Sars-CoV 2”.

Un po’ me lo aspettavo. Alla mia amica ho comunicato tutto in diretta al telefono: «Sono positivo». Però le ho nascosto la preoccupazione e ho continuato a parlare con disinvoltura ma in realtà volevo sparire. «Va beh, ma stai bene, non hai sintomi» mi ha detto lei con una sincera voglia di tirarmi su. E aveva ragione.

Ho cenato con una rabbia insolita quella sera. Poi ho inviato un messaggio al mio medico della mutua, una dottoressa, riferendole l’esito del tampone e ho atteso che mi rispondesse. Mi sono sentito smarrito, molto solo. E incredulo. «Ma come ha fatto ad attraversare la mia barriera ipocondriaca intrufolandosi nel mio corpo?» mi chiedevo. Già, perché sono sempre stato attento. Ho portato la mascherina durante le riunioni di lavoro o di altro tipo. Però i numeri non mentono: se è riuscito ad invadermi è solo perché, in qualche modo, gliel’ho permesso.

Non l’ho detto subito ai miei per non rovinargli la notte. Ho aspettato il giorno dopo, e anche l’amica di prima mi ha incoraggiato a fare così. Tanto comunque mi sarei tenuto lontano da loro così come già stavo facendo. Quella notte sono saltato più volte. Mi sentivo bene ma stavo male e saltavo. Non ho sognato nulla di preciso, solo immagini confuse e quasi deliranti, nemmeno troppo spiacevoli. A dire la verità qualcosa dentro mi diceva che dovevo essere fiducioso.

A colazione ho mangiato delle fette biscottate con lo yogurt. Poi ho chiamato la dottoressa comunicandole al telefono il tutto e chiedendole cosa fare. Mi ha prescritto antibiotici e cortisone. Ho chiesto se fosse il caso di prendere tutti quei farmaci visto che non avevo più febbre già da un paio di giorni ma lei ha insistito dicendomi che avrei dovuto. La sua insistenza mi ha acceso un campanello sullo stomaco, un presagio. Ho eseguito, ho obbedito, affidandomi a chi ne sa di più senza chiedere troppo. Credo che sia così che bisogna fare in certi momenti della vita, affidarsi all’altro, fidarsi dell’altro e abbandonare la presunzione di avere proprie iniziative.

Ai mie l’ho detto subito dopo, mostrandomi calmo, sereno, per evitare di accendere in loro le preoccupazioni. «Si tratta solo di continuare a stare separati per un po’ di giorni, e tutto passerà. Io mi sento bene, quindi, non vi preoccupate».

Mi hanno tenuto compagnia gli amici, quelli che sanno ancora telefonare, e la sera, ogni sera, i video di Massimo Polidoro, un bravo giornalista e scrittore. Trovo piacevole il suo modo di porsi nel raccontare le storie, trasmette molta calma e fiducia. Poi ho scritto qualche verso, ho letto notizie, un paio di libri lasciati a metà, ho cercato di lavorare per quel che riuscivo a fare, ma la mente ritornava sempre in allerta. Il timore era che, non so come, all’improvviso, i sintomi sarebbero affiorati con tutta la loro violenza. E così, per cercare di sedare le mie ansie, chiedevo notizie a mio fratello che lavora su al nord come infermiere professionale proprio al reparto Covid. Chi più di lui o dei medici che ha consultato per me svariate volte potevano darmi informazioni? Sono sicuro che lui, adesso, è più felice di me per la mia avvenuta negatività. E non perché abbia avuto paura pensando ad un aggravamento delle mie condizioni, niente affatto. Il suo sollievo è dovuto alla sua liberazione dalle mie continue domande e alla mia continua ricerca di rassicurazioni. È arrivato addirittura a dire: «Guarda, lo voglio prendere io sto Covid basta che tu te ne liberi e mi fai stare in pace». Ovviamente il suo atteggiamento, molto più sereno del mio, era dovuto ad una conoscenza della malattia che io non ho. Conoscenza acquisita durante questi mesi in corsia, dove ha potuto osservare bene il comportamento di questo coso nei pazienti: «Stai tranquillo, questo è quello che tu hai avuto, non ti può più accadere null’altro. E adesso non chiamarmi più».

E allora, passando i giorni, vedendo che tutto sommato davvero non mi accadeva nulla, ho cominciato a tranquillizzarmi. C’è stato un momento esatto in cui ho capito che, il coso, se ne era andato dal mio corpo. È accaduto circa tre giorni dopo aver appreso l’esito positivo del tampone, mentre facevo colazione: ho risentito sia il gusto che l’odore dello yogurt. Ananas. A quel punto mi sono detto: «È andato via». In ogni caso ho voluto aspettare un’altra settimana prima di ripetere il test, sempre per quella faccenda della mia sospettosità e dell’essere legato, per quanto sia uno che scrive e vola via facilmente con la fantasia, ai numeri, all’empirico, alle evidenze della scienza: all’esito di un test.

“Risultati: ESITO NEGATIVO per Sars-CoV 2”.

Non mi è mai capitato di esultare nel leggere la parola “negativo” riferita a me. Che bello, una vera liberazione. Ma anche tanta amarezza. E non per me. Per me solo tanta gratitudine agli eventi per come sono andati, per il loro epilogo. Penso a chi ancora si trova in ballo e non sa cosa fare o pensare; a chi è nelle terapie intensive; a chi scopre ora la sensazione di incertezza e di solitudine nell’apprendere di essere stato contagiato e non sa come sarà domani.

Però voglio dire una cosa che si fonda sulla mia esperienza appena conclusa, solo su quella, sforzandomi di evitare di essere banale e scontato. C’è un proverbio arabo che recita così:

“Non arrenderti. Rischieresti di farlo un’ora prima del miracolo”.

Vi voglio bene.

© Andrea Auletta.

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