La vita è bella anche quando sputa
La vita è bella anche quando sputa

da “Amore Cane”- occhi di quarzo citrino

(…) Guardavo gli alberi da frutta piantati l’uno accanto all’altro, posti alla giusta distanza, quella che ti fa sentire un individuo fuori dalla folla. Quella che ti fa sentire un individuo. Senza folla.
Sotto il cielo il lavoro svolto dai contadini, che probabilmente abitavano i casolari disseminati nei dintorni, disegnava lo scenario di una vita lenta.
Le balle di fieno stavano coricate, di fianco, mostrate come sculture poggiate al suolo. Un profumo di erba falciata aveva sostituito quello degli scappamenti, così come il silenzio soppiantato il diabolico mondo sonoro dell’urbe.

Ero solo, coi piedi sul pietrisco e il mio relitto a quattro ruote abbandonato ai bordi della via, trattato malissimo, come qualcosa di cui vuoi disfarti con disprezzo e compiacimento.

Sedendomi sul ciglio dello sterro, mi strofinai gli occhi, alzai le braccia e sbadigliai profondamente per causare una definitiva distensione nel mio corpo. Poi guardai la campagna notando da lontano un cane legato alla catena, vicino ad una cuccia di legno spartana, di quelle fatte con vecchi tavolati inchiodati fra loro.
Era una cagna.
Me ne accorsi perché le mammelle toccava quasi terra e pensai che da qualche parte dovessero esserci dei cuccioli. Sorrisi a quell’idea dimenticando del tutto l’odissea vissuta poco prima.
Col fiato ritrovato, il cuore zittito, munito di cautela, mi avvicinai alla bestia, e passo dopo passo ne scorgevo le fattezze. Si trattava di un molosso.
Il colore del suo mantello era grigio polvere con tigrature fulve, dorate, quasi impercettibili. L’aspetto quello di un animale primitivo con lo sguardo vitreo e selvaggio. Dava l’impressione di essere una bestia dei boschi catturata e poi legata li da qualcuno, e mi fissava seriosa con la sua espressione leonina.
Nel vedermi cominciò ad emettere latrati singoli, cadenzati, distanti l’uno dall’altro ma secchi, decisi. Lo spazio fra un abbaio e l’altro era colmato da quello sguardo prepotente che mi entrava dentro senza chiedere il permesso.
Occhi ambrati, profondi, privi di incertezze, caldi come quella giornata afosa. Erano occhi di quarzo citrino.
Restai ad osservarla per qualche minuto perdendomi in quei guaiti dal timbro cavernoso, scordandomi del fastidio che il sole cocente mi procurava. Mi piaceva quel muso largo, potente, perché comunicava un senso di pienezza.
Certamente doveva essere un cane messo li a guardia di qualcosa da qualcuno. La scodella di stagno riempita d’acqua suggeriva questa idea. Poi le orecchie e la coda mozzate, oltre a conferirgli un aspetto temibile, erano il segno forte che rivelava la sua appartenenza all’uomo, assieme alla catena e al collare di anelli di ferro.
Riversai nei suo occhi la pace ritrovata, sentendo di essere affine a quella bestia e a quei luoghi di luce, di aria e di terra. (…)

 

© Andrea Auletta

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