La vita è bella anche quando sputa
La vita è bella anche quando sputa

brano tratto dal racconto: “i fiori gialli di Tonino”

(…) Sull’autobus salimmo senza fare il biglietto e sedemmo in prima fila. Arrivò quasi subito e nell’attesa non feci alcuna domanda a Tonino circa la nostra destinazione. Non c’era nessuno a bordo, tranne l’autista che non ci chiese conto del biglietto.
Percorse la strada che portava verso Napoli menandosi ad ogni buca presa sull’asfalto e mano a mano che si allontanava dal paese, Tonino sembrava diventare più felice e più bambino. Ebbi la sensazione che la sua solita irrequietezza si placasse, così come anche quell’aria da piccolo adulto duro, lasciasse il posto ad una tenera insicurezza nello sguardo.
Dopo circa venti minuti arrivammo a Secondigliano e scendemmo a metà sul corso principale. C’era tanta gente che passeggiava fra i negozi di terza scelta, quelli che esponevano sui marciapiedi abbigliamento a buon mercato, capi prodotti nelle fabbriche improvvisate, allestite dentro gli scantinati della provincia. Anche nel mio paese ce n’erano tante.
Seguivo Tonino che sfilava tra la folla dandomi la sensazione di sapere dove andare. Faceva caldo e ad ogni angolo di strada ero tentato di prendere un bicchiere di granita dai venditori ambulanti, ma non avevo soldi in tasca.
All’angolo di una delle tante traverse superate, Tonino si fermò per pochi secondi vicino ad un signore che vendeva sigarette di contrabbando. Lo salutò confidenzialmente e lui gli rispose calmo, col fare di chi non era per nulla sorpreso di vederlo: «Oh Tonì», fece il tizio dall’aria trasandata.
Voltammo nella traversa e Tonino bussò al citofono di un piccolo portone serrato prospiciente sulla strada. Sentii una voce di donna chiedere chi fosse e lui rispose soltanto: «sono io, apri». L’anta si aprì e salimmo delle scale strette e buie che finivano ad un primo ed unico piano. Venne ad aprirci una donna di circa quarant’anni o poco più.
Non riuscivo a capire ancora dove mi avesse condotto, ma nel vedere quella signora fui stupito dalla somiglianza con Tonino, era uguale a lui. Aveva gli stessi occhi scuri e le stesse orecchie a sventola, lo stesso naso allungato, la stessa bocca stretta, lo stesso ovale scarno. La sua statura era minuta come quella di una ragazzina mai cresciuta e solo le rughe eccessive sul viso segnavano il tempo trascorso. Tonino nel vederla l’abbracciò felice, aggrappandosi forte a quel piccolo corpo. Lei lo lasciò fare senza ricambiare più di tanto il suo entusiasmo. Ebbi l’impressione che fosse anche un po’ infastidita dalla nostra venuta, ma mantenne un atteggiamento cordiale.
Staccandosi da Tonino, gli chiese seria io chi fossi. «Mamma, questo è un mio caro amico», gli rispose. La donna mi guardò e poi ci fece entrare senza aggiungere nulla e senza dare peso alla mia presenza. Si avviò in cucina dove la seguimmo, tirò fuori una bottiglia di succo di frutta dal frigo e ce ne versò in due bicchieri.
Ero intontito, stralunato, quasi de-realizzato, direi oggi al netto della mia laurea in psicologia. Non solo perché era la prima volta che mi allontanavo, solo in compagnia di un amico, così tanto da casa. Certo, vivevo quasi sempre in strada, ma quelle erano le strade del mio paese e dell’immediato circondario, luoghi da sempre familiari, un’estensione del mio cortile. Le percorrevo a piedi conoscendone a memoria la mappa e sapendo i percorsi del ritorno. In quella circostanza, invece, non sarei stato capace di ritornarmene a casa da se mi fosse venuta la smania di rientrare e questo mi creava disagio. Ma ciò che fece vibrare con violenza le mie certezze fu l’aver sentito Tonino chiamare “Mamma” quella donna che io non conoscevo. Mi dissi: «ma come, la sua mamma non è Filomena, la sorella del fioraio?». Ma non parlai e non feci domande al riguardo. Lui era così felice, come mai lo avevo visto. Sorrideva intenerito a quella signora, non mi sentii di intromettermi con domande fuori posto.
Ad un certo punto, con l’atteggiamento di chi conosce bene quella casa, si avviò per il corridoio e mentre andava chiese alla donna: «Gennaro ci sta?». «Si», rispose lei, «è nel soggiorno», e lasciandomi da solo in cucina a bere il mio bicchiere al succo di albicocca, era già alla porta di quella stanza. Mi sentivo imbarazzato. La donna badava alle sue faccende, ai piatti, alle posate da lavare, senza prestarmi attenzione. Sembrava come se io per lei non ci fossi in quella stanza, come se lei non ci fosse.
Dopo qualche minuto, Tonino ritornò a recuperarmi come un oggetto dimenticato per distrazione, chiedendomi di seguirlo: «vieni Sasà, ti faccio conoscere mio fratello».

Entrammo in una stanza buia con le persiane abbassate. Alla sedia stava seduto un ragazzo molto più grande di noi, poteva avere più di vent’anni. Fumava una sigaretta, aveva gli occhi chiusi e lacrimanti su una faccia inespressiva. Notai ancora una volta la somiglianza spietata con Tonino, la stessa tipologia di testa, gli stessi lineamenti. Era magro coi capelli cortissimi e mi dava l’impressione di non stare troppo bene.
«Gennaro, questo è il mio migliore amico», fece Tonino.
«Ah, bravo. Come ti chiami?», mi chiese il ragazzo guardandomi un istante per poi ritornare a chiudere gli occhi inumiditi. Gli dissi il mio nome e poi più nulla, non so nemmeno se riuscì a carpirne la pronuncia.
L’imbarazzo cresceva con la sensazione di sentirmi fuori posto, mi pareva di stare a guardare il retro della vita di Tonino, di essere entrato dietro il palco dove si svolge la commedia, fra i camerini ad osservare gli attori senza trucco e senza costumi che si apprestano a svestirsi, ma anche di assistere a qualcosa che percepivo come un privilegio o come un peso, un segreto di cui non avrei dovuto parlare con nessuno.
Quel ragazzo al tavolo continuava a fumare al buio, nel silenzio di una stanza che filtrava il caos delle auto e della gente proveniente dalla strada, da un frenetico paesaggio rumoroso, pieno di luce e di persone indaffarate ad arraffare con la vita. Non diceva una sola parola. Si limitava ad annuire a ciò che Tonino gli raccontava della sua seconda esistenza vissuta con gli altri genitori. Mi fu subito chiaro che si era appena fatto una pera, e per la prima volta potei osservare un tossico da così vicino, nell’intimo del suo spazio esistenziale. Quella era la casa di un drogato, e pensai che non fosse poi così diversa dalla mia. Tutto era composto, in ordine, pulito, c’era odore di detergenti ovunque, i pavimenti erano lucidi come specchi. Quasi per caso ero entrato in quel mondo che si raccomanda a tutti di non conoscere troppo a fondo. Lì, seduto al tavolo di fronte, immerso nel suo delirio semilucido, c’era un eroinomane strafatto, mostrato a me nel suo privato. Uno dei tanti che incontravo spesso per la strada, semi addormentati in piedi, cadenti sulle gambe e che nell’immaginario collettivo abitano le fogne o i parchi comunali chiusi dai cancelli arrugginiti. E invece no, aveva una casa come la mia, di certo anche un letto come il mio e una madre pure, proprio come me e come Tonino, anzi, Tonino ne aveva due di madri a questo punto.
Lui sembrava non dare importanza alle condizioni del fratello che, al contrario, a me creavano sconcerto. Non se ne stupiva affatto. Si comportava come se la sua tossicodipendenza fosse parte di una realtà già accettata intimamente, continuando a stare disinvolto nel stato d’animo felice, appagato, che gli metteva in bocca un sorriso incosciente. Toccava ogni cosa con le mani: i mobili; i suppellettili sul tavolo; gli oggetti appoggiati alla credenza; le foto incorniciate; il vaso coi fiori finti. Quasi a volerne provare la concreta esistenza. Sembrava voler dire orgoglioso e avido: tutto questo è mio, questa è la mia casa, la mia famiglia, il sangue del mio sangue, da questa gente sono nato ed è qui che trovo pace.
 
Ritornammo in cucina dalla madre che aveva finito le faccende di casa e sedeva al tavolo stringendo fra le dita una sigaretta più grande di lei. Ci sedemmo anche noi. Tonino la guardò ancora in preda a quella specie di rapimento incantato, e a quel punto la donna cominciò a parlare. Le sue parole furono sferzate inferte alle illusioni.

«Ti trovi bene?», chiese al figlio col volto grave.
«Insomma», rispose, e mi guardò come se potessi in qualche modo venirgli incontro, testimoniando alla madre l’esistenza di un disagio da lui vissuto, ma provai solo confusione e quindi non fiatai.

La donna non badò a quella parola detta da Tonino, insomma, che forse lui lanciò lì come una spia rossa, un segnale d’allarme lampeggiante innanzi agl’occhi della madre, aspettandosi che lei lo cogliesse. Ma lasciò scorrere, e invece di interessarsi alla velata, ma chiara richiesta di dialogo del figlio, cambiò proprio argomento.

«La scuola come va, stai studiando?», esordì.
«Si, va bene. Studio poco ma prendo voti buoni». Poi guardandomi continuò.
«Qua ci sta Sasà che è il più bravo della classe, non sono come lui ma quasi. Vero Sasà?».

Non dissi nulla limitandomi a sorridere imbarazzato, e lei colse in questo una specie di conferma a quanto il figlio le diceva.

Poi riprese.

«Hai visto a tuo fratello?», disse con piglio duro, «è uscito da quindici giorni da Poggioreale, dal carcere, non ha mai aperto un libro in vita sua. Lo hai visto come è bello sulla sedia tutto fatto? Vedi di non fare la sua fine», intonò infine la donna, fra il minaccioso e il preoccupato.

Tonino non rispose, le parole della madre gli spazzarono via dal volto quel sorriso da ebete imprudente col quale era arrivato, riportandolo ad una realtà brutale. Si fece serio.

In me il disagio aumentava ancora. Sentivo i lampi nello stomaco e le formiche dentro il petto, come quando in classe la professoressa consultava sadica il registro per scegliere dall’elenco chi di noi interrogare. Avevo l’ansia. Ma quella situazione non mi riguardava e questo mi dava più scioltezza. Mi sarebbe bastato stare lì in silenzio ad ascoltare la loro conversazione. Avrei risposto un “si”, oppure un “no”, forse anche un “non lo so”, se fosse stato il caso, ma nulla di più. Mi sarei limitato al minimo convenzionale senza immischiarmi più di tanto nelle loro faccende. Nulla di quanto stava accadendo mi apparteneva, quella era una incursione casuale nella vita, per me fino ad allora sconosciuta, di Tonino. Ma lui sembrava a proprio agio in quella casa anche in mia presenza. D’altra parte era stato proprio lui a volermi svelare il suo segreto portandomi con se.
Abbandonato il suo rigore, la donna si alzò dal tavolo, prese una borsa e tirò fuori un borsello da cui estrasse una moneta da diecimila lire. «Tieni a mamma, mettili in tasca, ti compri il biglietto per il ritorno». Il tono si fece più gentile ma restò fredda e distaccata. Capimmo subito che dovevamo andare, Tonino lo capì benissimo. Si alzo dalla sedia indossando un sorriso più cupo questa volta, non più euforico come prima, e le andò incontro abbracciandola con garbo.

Io mi avviai verso la porta, la signora mi accennò un sorriso con ancora il figlio addosso, e la salutai con un cenno della testa. Imboccai le scale precedendo Tonino che si intrattenne ancora un po’ con lei.
Le feci di corsa quelle scale ripide, strette e buie, non vedevo l’ora di aprire il portoncino per rituffarmi nella luce della strada, rimettendomi nel mio posto sicuro, seduto fra gli spettatori a guardare il fronte del palcoscenico. Aperta la porta la città mi accolse come la realtà irrompe in una visione, accogliendo pure il mio sospiro che immise nell’aria la tensione fino ad allora accumulata. Rimasi lì fermo accanto all’ingresso aspettando che Tonino mi raggiungesse e non dovetti attendere molto.

Sbucato dall’uscio buio chiuse l’anta con forza e mi guardò: « Sasà, non dire niente a nessuno, mi raccomando». Il frastuono esteso delle auto, dei passi e del vociare, ingoiava i nostri sguardi.
Non gli risposi proprio. Sapevo benissimo cosa fare o non fare in quella circostanza. Ma tenne a precisare pure che non avrei dovuto parlarne con Luca e Gino, e neanche con i miei. Era un segreto solo nostro. Mi aveva coinvolto in una dimensione a tutti gli altri sconosciuta, che riguardava la sua storia, la sua vita. Non sapevo se esserne fiero o sentirmi gravato di una responsabilità non richiesta. Prevaleva comunque lo stordimento. Filomena, la sorella del fioraio, da sempre per me sua madre, non lo era affatto e avevo, invece, appena conosciuto la donna che lo aveva messo al mondo. Le domande nella testa si intasavano come le biglie di vetro tenute nel barattolo del caffè appoggiato sul mio comodino, accavallandosi l’una all’altra, mentre silenziosi ritornavamo al paese seduti nell’autobus.

Chi è il padre e dov’è adesso? Come ha fatto Tonino a rintracciare la sua famiglia di origine? Avrà altri fratelli o sorelle oltre a quel ragazzo fatto di eroina?

 
Il bus percorreva a ritroso le stesse strade scassate, e una specie di sonno si calava sopra gli occhi cullati dal suo movimento scomposto e sussultorio.
Tonino seduto alla mia destra aveva la faccia triste schiacciata dentro il vetro e guardava la vita fuori, frenetica, alluvionata, distante, appannata dall’alito che gli fuoriusciva dal naso. Non disse una parola, ma la rabbia si leggeva chiara nei suoi zigomi infuocati, nelle labbra serrate a denti stretti e negli’occhi ridotti ad una piccola fessura, quasi chiusi, come a nasconderlo dal mondo.
Provai tenerezza, e fu la prima volta che sentivo per lui un sentimento aggiunto a quello di sola ammirazione. (…)

 

© Andrea Auletta

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