La vita è bella anche quando sputa
La vita è bella anche quando sputa

Amore Cane – estratto dal capitolo 2: “il dio pan”

(…) Stavo quasi per crollare.
Come se non bastasse, poi, al capogiro, si aggiunse pure un tremore freddo. Oscillò nella pelle come un’onda mettendomi una smania addosso, simile a quella di un bambino costretto a stare fermo per contenere le sue energie, quando, invece, queste hanno voglia di scorrere fluendo.
Allora non capivo cosa mi stesse accadendo, era la prima volta che il Dio Pan mi parlava così forte, da così vicino, scuotendomi da dentro. Certo, e a pensarci oggi con il retrovisore, avevo avuto numerosi avvertimenti, sperimentando sensazioni d’inquietudine fugaci, passeggere. Mi erano passate addosso come un vento freddo ma veloce, simili a brividi intensi nati e morti nello stesso istante. Mai, avevo posto l’attenzione a quello scricchiolare svelto, che a mia insaputa costruiva crepe a rete nell’impalcatura dura dell’anima, fino a farla poi crollare di colpo proprio quel giorno, proprio in quel luogo: a Napoli.
Cercai allora di resistere ripetendomi un rassicurante mantra improvvisato, inventato al momento: «Va tutto bene, stai sereno, va tutto molto bene, stai calmo …», ma non andava affatto per il meglio, e così, il bisogno di scappare via da quel posto, divenne l’unico gesto che considerai possibile. Sentivo di dover fuggire da un pericolo imminente, che non aveva occhi, bocca, o un qualsiasi altro corpo o forma umana o inumana, fatta di carne o di un materiale diverso. Intorno e fuori di me non c’era nulla che potesse realmente costituire una minaccia. Il leone feroce mi ruggiva dall’interno.
A un certo punto ebbi la reale percezione che mi mancasse l’aria. La testa cominciò a girarmi sempre di più, ma era tutto falso. Di aria, dentro e fuori, ce n’era in abbondanza, forse più del necessario, e se fossi stato solo, mi sarebbe bastato correre come un matto fino allo sfinimento, stancando ogni muscolo, per tornare a uno stato di benessere, ma non ero solo.
Alle percezioni corporee se ne affiancarono altre ancora più insidiose: quelle mentali. Pensieri ingabbianti mi davano la sensazione di sentirmi intrappolato come dentro un percorso angusto a una sola direzione. Vidi nettamente la mia vita come quella di chi sta ficcato in una strettoia di cose da fare, da dire, da mostrare, estranee al proprio essere più profondo.
Con un residuo di pensiero lucido, decisi secco che dovevo andarmene via immediatamente da quel luogo, intuendo che cambiando scenario mi sarei sentito meglio. E forse con un modo non troppo cordiale, di sicuro frettoloso, mi staccai dalla conversazione salutando il mio cliente, dirigendomi poi verso la macchina parcheggiata poco distante, ai bordi della strada, prigioniera nelle strisce blu del centro.
Montai alla guida e stetti fermo per qualche secondo senza metterla in moto. Il cuore mi batteva accelerato.
Oltre il parabrezza vedevo colonne di altre auto in fila sputare fumi neri dal culo. Ai lati della corsia montagne di palazzi parevano in procinto di cadermi addosso. Un concerto di clacson suonati di continuo, opprimeva i miei timpani e mi sentii sprofondare, svenire, come ingoiato da un sonno profondo. Era soltanto il desiderio di rifugiarmi nel mio stomaco per nascondermi dal mondo e dai suoi disordini.
Strappando, ancora, brandelli di energia, raschiata al fondo, misi in moto l’auto ansimando, con addosso un senso di solitudine e di terrore. Con uno scatto veloce mi avviai alla ricerca di un cielo scoperto, capace di accogliere un urlo o un gesto utile a dissipare quella specie di corrente che mi attraversava il corpo.
Volevo diventare aria dentro l’aria.
Instradato in mezzo al traffico, premevo il piede sull’acceleratore, poi frenavo di colpo seguendo le auto in processione. I passanti sui marciapiedi sembravano sfrecciare come treni e benché avessi gli occhi sbarrati, non riuscivo a coglierne i tratti somatici. Come ologrammi o sagome in fuga, sparivano rapidamente subito dopo il mio orecchio. Quel fiume di ferraglie scorreva lento, rumoroso, avvolto da un delirio privo di senso, diventando un ostacolo che sentivo come insormontabile nella mia corsa alla ricerca di ossigeno.
Ebbi la sensazione di morire.
Con la vista annebbiata individuai una strada secondaria più stretta, ma libera e scorrevole, una scorciatoia verso la corona periferica. La imboccai infilandomi nelle fitte maglie stradali, percorrendo il frenetico labirinto soffocante della città impazzita, con il dubbio che a impazzire fossi io e non il resto.
Strisciando, poi, da vicolo a vicolo spuntai, finalmente, su di una via principale più ampia, quella che conduce all’autostrada. La percorsi senza sosta, senza guardarmi intorno. Il cuore imitava ormai il motore.
L’affollamento umano e quello dei veicoli, giunto sulla strada larga, iniziò a sfoltirsi appena fuori dal centro, con esso la pressione nelle tempie si attenuò all’improvviso, fino a scomparire.
Capii che non poteva trattarsi di un infarto, nemmeno di un ictus, perché ero ancora vivo e cominciavo lentamente a ritrovare il benessere sfuggito. Di qualunque cosa si trattasse, in ogni caso, mi resi conto di trovarmi nel punto in cui lo sconosciuto male decresceva, percorrendo a picco verso il basso la sua parabola vitale.
Continuai a guidare con più calma, e proseguendo scorsi la rampa che presi al volo, senza esitare, dando un’altra spallata al cancello che mi rinchiudeva la testa nella pancia. La tirai fuori dal ventre, nella maniera in cui un nascituro spunta dalla madre, rivedendo il cielo come fosse, quella, per me la prima volta.
Era azzurro, era terso, il cielo sopra la cappotta della macchina. Oltre i vetri appariva come la quiete che attendeva il mio ritorno. Si faceva osservare indifferente, immobile, distaccato dal tormento che sentivo dentro. Il dubbio che non sarei mai più riuscito a goderne, devastò quell’istante intenso, ma superata la salita, la carreggiata si distese ampia in sopraelevata e il mio umore cambiò senza strascichi di paura, a eccezione di un residuo senso di stanchezza che avvertivo nelle braccia e nelle gambe. Potevo di nuovo sperare, adesso, di appartenere ancora a quel cielo fermo e vivo.
Sul volto, gli occhi, mi ridisegnarono un’espressione più serena. Osservai il paesaggio sottostante fatto di palazzi ammucchiati, che finalmente vedevo lontano, dall’alto. Lo guardai come uno scampato al crollo fissa le macerie della casa disastrata e, sentendomi graziato, amai di più la cadenza del respiro, questo straordinario alitare che ho sempre dato per scontato. Mi placai. E stirando la schiena sul sedile, lasciai che il cuore facesse la stessa cosa.
 
È davvero strano sentirsi sul punto di morire senza che ciò avvenga per davvero. E poi, in un attimo, vedere sparire le ombre minacciose che si ritirano con il sogghigno sul viso come a dirti: «questa volta ce l’hai fatta, ma ritorneremo a farti visita». Ma quella volta, a Napoli, fu davvero la prima volta, e tutto mi sembrò un malevolo delirio. Non potevo certo sapere che, appresso, sarei riuscito a imparare il modo di mettere a tacere quell’urlo, riducendolo a una voce soffiata, quasi amica, divenuta poi addirittura un mezzo con il quale capire meglio il mondo, lo strumento da usare per compiere la mia rivoluzione.
Quella morte simulata, con le sue mani nere, terribili ma inconsistenti, non poteva condurmi alla fine della vita, spegnendo i battiti, questo era fuori dubbio, eppure ogni volta me ne scordavo, ricadendo puntuale nell’inganno.
 
In alto dalla strada, il mostruoso agglomerato urbano sembrava ancora inquietante ma innocuo, ormai ero fuori dalle sue viscere roventi, oltre il suo corpo scomposto e fumante. Sentivo di essermela cavata uscendo indenne da quello che credevo un pericoloso viaggio, estenuate e tragico, irrimediabilmente fatale. Avevo proprio bisogno di un premio, una consolazione, qualcosa da regalarmi, un momento vissuto lontano da me stesso, quel me stesso di sempre, frequentatore dei soliti luoghi.
Per concedermi un sollievo, percepito come trasgressivo, oltre la linea retta del mio tempo, voltai in direzione Roma uscendo poi a Caserta Sud, avviandomi verso il Sannio, con l’intenzione di perdermi nelle sue campagne aperte e silenziose, tanto diverse dalla provincia partenopea in cui esistevo e resistevo. Desideravo darmi questa evasione, un colpo fuori dalle righe, restando via tutto il giorno, mandando all’aria gli impegni di lavoro che mancati, non uccidono nessuno.
 
Ero già stato nel Sannio in passato, a Cusano Mutri per esempio, ma non solo. Conoscevo anche altri posti della provincia di Benevento, paesi piccoli e gentili, circondati dai campi lavorati, ma ci ero andato sempre e solo come fanno tutti: per delle gite fuori porta nei fine settimana. Spesso con amici avevo pranzato in una tipica trattoria che conoscevo bene, dove il cibo in bocca oltre a riempire la fame, colmava una voglia di piacere sotto il palato. Ricercare la pace di quei luoghi, quindi, fu per me istintivo, spontaneo. Ciò che m’importava al momento, era vivermi una pausa di sana solitudine fuori dal chiasso, e quello era il posto giusto.
 
Il viale che porta alla Reggia del Vanvitelli lo percorsi agilmente, quasi allegramente, così come la strada per Maddaloni. Mi sentivo rilassato, guidavo senza accorgermene.
Superato l’agglomerato di Dugenta, la terra nuda mi si presentò davanti sfacciata e seducente, distesa ai lati di una strada senza ingombri. Ma continuai ancora a camminare oltre, lasciandomi alle spalle il paese, con disinvoltura, avendo recuperato la mia serenità, anche se ancora affetto da quella sensazione d’infiacchimento che, tuttavia, cominciava a sfumare.
 
Sapevo, ora, che qualsiasi traversa avessi imboccato, a destra o a sinistra che fosse, mi avrebbe condotto nel suo grembo, nel mezzo della campagna Sannita, a scoprirne cocci, scenari e segreti, quelli che la statale taglia, nasconde e divide come un solco fra mondi disgiunti. (…)

 

© Andrea Auletta

Leggi altre info e la trama del romanzo cliccando qui.

Leave a comment

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

2 thoughts on “Amore Cane – estratto dal capitolo 2: “il dio pan””

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. maggiori informazioni

Questo sito utilizza i cookie per fornire la migliore esperienza di navigazione possibile. Continuando a utilizzare questo sito senza modificare le impostazioni dei cookie o cliccando su "Accetta" permetti il loro utilizzo.

Chiudi