La vita è bella anche quando sputa
La vita è bella anche quando sputa

Amore Cane – Estratti dal Capitolo 5: “Un impegno d’amore

(…) I cuccioli giocavano fra loro nelle zolle, giocavano a combattersi. Ringhiando, mostravano denti appuntiti pronti a mordere sul serio. Mi sorprese questo aspetto più crudele, distante dalle rotondità di quei musi che attirano carezze. Stetti a osservarli mentre Nicola, senza curarsi di loro, continuava a parlarmi del suo lavoro.
Appena ebbi l’impressione che il fluire delle sue parole si sfiatasse, mi alzai per andare dal mio prescelto, lo sollevai da terra e lo tenni fra le mani.
Stavo fremendo. Temevo che si potesse ferire nella lotta con gli altri. Nicola nemmeno ci badava.
Un attimo prima faceva il gradasso con i fratelli mostrando la sua tempra, adesso, invece, si era ammutolito. Mi guardava inerme come uno scugnizzo che cerca di farsi scambiare per un diligente scolaretto. Quel muso mi rapì totalmente. Se non fosse stato sporco di terra o di chissà cos’altro, o se non avessi avuto quelle stupide, igieniche remore borghesi, gli avrei stampato sopra il mio senza esitazione.

Tornai a sedermi sul tavolo di ponte tenendolo ancora sulle gambe, questa volta. Nicola nel frattempo si era allontanato per controllare le galline, cercava delle uova da darmi.
Strinsi il piccolo al mio petto, lo guardai da vicino. Il suo sguardo sembrava non avere mete, ma non era neanche smarrito. Sapevo che appena posato di nuovo in terra, avrebbe ripreso a giocare con gli altri mostrando disinvoltura, come un pesce che rimesso in acqua sa come e dove andare a nuotare ritrovando la sua dimensione. Il mio corpo per lui, in quel momento, era una pausa alla vita, una sospensione al fluire delle energie che gli scorrevano dentro come un fiume felice. Era una zona franca.
Lo poggiai nuovamente al suolo e lui veloce, corse incontro agli altri, desideroso di continuare il gioco. Decisamente più bello, anche se più rischioso, osservarlo in quella circostanza. «Forse la paura che si faccia male è solo mia», pensai.

Nicola mi chiamò mostrandomi dei pulcini nel pollaio, mentre in una mano stringeva tre uova. Erano nati da pochi giorni, seguivano la chioccia senza perderne il filo del cammino.
«Ho trovato solo queste uova, prendetele, portatevele a casa, sono ancora fresche e le potete mangiare anche domani mattina a zabaglione o sbattute con lo zucchero».
La sua voce, la calma, la cortesia che mostrava, mi coinvolgeva in modo gentile e paterno, ma senza sembrare eccessiva o sfociare in una specie di altruismo esibito. Tutto sembrava così semplice, schietto, da apparirmi fuori tempo.
Erano anni che non facevo colazione la mattina con uova fresche, da quando ero un ragazzino sempre in corsa.
Dicono che le uova siano buone anche per questo, ridanno vigore ai corpi stanchi. Certo, a quarant’anni, non so fino a che punto potessero servirmi, ma l’idea di mangiare qualcosa che ho visto raccogliere dalla fonte, mi affascina tutt’ora. Quelle uova avevano come origine il culo della gallina, non sbucavano da un contenitore di cartone o di plastica come quelle che mia madre tira fuori fredde dal frigo, pronte per essere cotte. E poi, quelle di mia madre, sono uova che puoi solo cucinare se vuoi evitare una diarrea con il mal di pancia. Le uova di Nicola, invece, potevano anche essere succhiate al momento. E così feci.
Ne presi una all’istante, la ruppi su di un lato bevendone sia l’albume che il tuorlo. Nicola mi guardò compiaciuto, forse anche divertito perché sorrise, poi si voltò per cercarne altre. Gli parevano poche solo tre uova, adesso due, ma davvero quel giorno le galline furono avare. (…)

……………………………………………..

(…) Quando mi allontanai, dopo aver salutato Nicola, lo portavo sul braccio destro e nessuno dei fratelli si accorse della sua assenza. Continuarono a giocare come se nulla fosse. Nemmeno la madre ci fece caso.
Forse certe separazione sono inevitabili, necessarie, anche naturali. Spontanee. Ma ci vuole sempre un motivo che provochi il distacco dando fine a un legame di per sé più scollato che coeso. Quel motivo mi riguardava.
Mosè aveva ormai denti di spillo pungenti dentro il muso e le tette della madre ne soffrivano a sangue. Poteva mangiare cibi solidi senza dipendere dalla cagna, in un certo senso, sarei stato io sua madre. Una nuova vita gli si presentava davanti con un compagno che avrebbe rimpiazzato il corpo della genitrice, e pure i giochi con i fratelli, atteso da un’esistenza incerta e sconosciuta.
Non posso sapere se la vita che avrebbe vissuto restando lì, in campagna con loro, sarebbe stata migliore o peggiore di quella che vive oggi. Ma so di certo che né io, né lui ci lamentiamo di questa nostra trascorsa insieme, anzi, ogni giorno, è una felice scoperta.
Nei suoi occhi, però, ogni tanto, mi capita di vederci una strana nostalgia che so, essere anche mia. Ignoro da dove provenga, ma è lì che si mostra. La sento palpitare nello sguardo, poco sopra le narici umide e nere. L’ascolto nei guaiti, o nei lamenti cupi. È presente con la smania di scavare, nelle zampe che graffiano il terreno facendo fossi dove, poi, ci s’infila dentro d’estate alla ricerca di frescura.
È una nostalgia che proviene da un’altra stagione, la stagione di Nicola. (…)

© Andrea Auletta

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